domenica 7 settembre 2025

Maleducati. Educazione, disinformazione e democrazia in Italia di Mario Caligiuri Editore Luiss University Press.

MALEDUCATI 

Educazione, disinformazione e democrazia in Italia. 

Mario Caligiuri 

 Luiss University Press.


Recensione a cura del Prof. Franco Mileto


Il saggio di Mario Caligiuri, "Maleducati. Educazione, disinformazione e democrazia in Italia.", edito da Luiss University Press, si configura non solo come una lucida e impietosa analisi dello stato del sistema formativo italiano, ma anche come un manifesto politico che intende riportare l’educazione al centro del dibattito nazionale, quale perno ineludibile per la sopravvivenza stessa della democrazia. L'opera, caratterizzata da un approccio interdisciplinare che spazia dalla pedagogia alla sociologia, dalla storia alla teoria della comunicazione, rappresenta una diagnosi severa e un accorato j'accuse contro un trentennio di riforme miopi, deriva culturale e disimpegno intellettuale. 

Caligiuri costruisce la sua argomentazione seguendo una logica a cerchi concentrici, partendo dal quadro globale per poi stringere il focus sulla specificità italiana e, infine, sulla crisi interna alla stessa disciplina pedagogica. I capitoli iniziali definiscono la tesi di fondo: l'esistenza di un nesso costitutivo e inscindibile tra la salute del sistema educativo e la qualità della democrazia. L'autore riprende il classico dibattito tra Dewey e Lippmann, concludendo amaramente che, nella società contemporanea dominata dalla globalizzazione e dagli algoritmi, la visione realistica di un'opinione pubblica manipolabile ("gregge da guidare") appare tragicamente più aderente alla realtà. In questo scenario, la disinformazione emerge non come un fenomeno collaterale, ma come la principale emergenza educativa e democratica, un campo di battaglia per il controllo delle menti. Il cuore del saggio è dedicato alla disamina della storia recente d'Italia.

Caligiuri traccia una "breve storia della disinformazione politica in Italia", dimostrando come la manipolazione mediatica e la costruzione di narrazioni distorte siano una costante, dall'Unità d'Italia alla Seconda Repubblica. Questa tendenza si è esasperata con l'avvento di un sistema politico-mediatico che, dagli anni '90, ha privilegiato la propaganda e la semplificazione binaria (amico/nemico) a scapito della complessità. Parallelamente, l'autore analizza il "ventennio di riforme scolastiche" del XXI secolo come un susseguirsi caotico di interventi privi di visione, spesso contraddittori e sistematicamente ignari dei "tempi insostenibili delle riforme", ovvero della natura intrinsecamente lenta dei processi educativi. I risultati di questa politica, come evidenziato nel capitolo "Madamina, il catalogo è questo", sono disastrosi: analfabetismo funzionale, divari territoriali abissali e un generale abbassamento delle competenze critiche. 

La parte più provocatoria e scientificamente rilevante del saggio è la critica rivolta alla stessa comunità accademica dei pedagogisti. Caligiuri denuncia l'adozione di una "antilingua", un gergo accademico astruso, autoreferenziale e lontano dalla realtà concreta della scuola, che genera una "antipedagogia". Si interroga provocatoriamente sulla scientificità della disciplina, suggerendo che essa sia piuttosto un campo di studi interdisciplinare, un'"inferma scienza" che ha smarrito la sua responsabilità sociale. Il capitolo sul "non dibattito pedagogico italiano" è un atto d'accusa durissimo: l'accademia pedagogica viene descritta come un mondo ripiegato su se stesso, concentrato su liturgie convegnistiche e dinamiche concorsuali, incapace di incidere sul dibattito pubblico e di offrire soluzioni concrete alle sfide epocali. All'interno di questa struttura di tono diagnostico, emergono alcune tesi di forte impatto speculativo. Una di queste riguarda la diabolica spirale nella quale sono intrecciate crisi educativa e crisi democratica. 
L’assunto è che un'istruzione di bassa qualità produce cittadini incapaci di pensiero critico e, di conseguenza, facilmente manipolabili. Questo indebolisce la democrazia, riducendola a una mera procedura elettorale e favorendo l'ascesa di élite inadeguate. Tali élite, a loro volta, perpetuano il ciclo promuovendo politiche educative inefficaci che privilegiano il consenso a breve termine sull'investimento a lungo periodo.

Tutto ciò inevitabilmente conduce alla Società della Disinformazione. Caligiuri identifica la combinazione tra un eccesso di informazioni irrilevanti e un basso livello di istruzione sostanziale come il cortocircuito cognitivo che definisce la nostra epoca. L'educazione, in questo contesto, non deve più limitarsi a trasmettere nozioni, ma deve fornire gli strumenti per "sapere cosa ignorare", per selezionare le informazioni rilevanti e sviluppare un pensiero critico come principale difesa contro la manipolazione. Altrimenti ci si dovrà consegnare al facilismo amorale e alla falsa uguaglianza. L'autore critica l'eredità di un certo pensiero post-sessantottino che, nel tentativo di democratizzare la scuola, ha generato un "facilismo amorale", abbassando le aspettative e confondendo il diritto allo studio con il diritto al titolo di studio. Questo, anziché ridurre le disuguaglianze, le ha aggravate, penalizzando soprattutto gli studenti provenienti da contesti svantaggiati, per i quali una scuola esigente e basata sul merito rappresenterebbe l'unica vera leva di mobilità sociale. Nonostante l’impietoso rigore della diagnosi, il saggio non si esaurisce nella critica. 

Nelle conclusioni e nel capitolo dedicato al suo personale contributo, Caligiuri avanza una proposta organica, una "pedagogia per il XXI secolo". Questa deve essere una "pedagogia della comunicazione", consapevole della mutazione antropologica dello "studente a più dimensioni" (fisico, virtuale, potenziato) e pronta ad affrontare le sfide dell'intelligenza artificiale. L'autore propone inoltre una "pedagogia meridiana", un modello educativo per il Sud Italia che ponga il merito come antidoto al clientelismo e come strumento per colmare i divari territoriali. Il punto d'arrivo è l'invocazione di una "pedagogia della nazione": un progetto culturale e politico che faccia dell'educazione la priorità strategica per ricostruire il tessuto civile e democratico del Paese. 

Il saggio evidenzia indiscutibili punti di forza. Intanto il suo valore principale risiede nella capacità di connettere ambiti solitamente trattati separatamente, offrendo una visione d'insieme potente e coerente. Poi, il lavoro si distingue per il coraggio di una critica radicale rivolta non solo alla politica, ma anche al mondo accademico (ovvero al mondo dell’autore), mettendone a nudo le debolezze e l'irrilevanza. Infine, la rigorosa, puntuale ricostruzione storica della disinformazione in Italia fornisce profondità e solidità all'analisi del presente. Qualcuno ha mosso qualche riserva per un larvato "declinismo", che rischierebbe di sottovalutare le sacche di eccellenza e innovazione che pure esistono nel sistema educativo italiano, ma sarebbe bastato pensare alla vicenda umana e professionale di Mario Caligiuri, da sempre impavidamente e spericolatamente schierato sulla trincea dell’innovazione e della sperimentazione, per fugare ogni ipotesi di rassegnato fatalismo. Piuttosto, è da annotare che per ora la proposta di una "pedagogia della nazione" rimane più un'intuizione e una direzione di marcia che un progetto compiutamente definito, lasciando aperti numerosi interrogativi sulle sue concrete modalità di attuazione. Ciò non toglie che questo sia un libro necessario, che intercetta e articola con chiarezza le ansie di un'epoca segnata dalla crisi delle istituzioni e dalla sfiducia nella conoscenza, ma soprattutto apre una pista che richiederà un auspicabile e poderoso lavoro collettivo.
 
In conclusione, "Maleducati" di Mario Caligiuri è un saggio destinato a diventare un punto di riferimento nel dibattito pedagogico italiano. 
È un'opera che scuote, provoca e costringe a pensare, il cui merito più grande è quello di elevare la questione educativa dal rango di problema settoriale a questione politica per eccellenza, indicandola con forza come il terreno decisivo su cui si giocherà il futuro della democrazia italiana. Un testo imprescindibile, quindi, per educatori, accademici, decisori politici e per ogni cittadino che abbia a cuore le sorti del Paese.


Prof. Franco Mileto

martedì 3 giugno 2025

Blog Tour di Piero Salabè "Mortacci mia" edito La nave di Teseo. 2 Tappa

  

Seconda tappa


–  Il rapporto fra il fratello e la sorella, Fabio e Aič, che cercano il padre scomparso, come lo descriveresti?

Nel romanzo, nel capitolo 18., si dice che sono gemelli “siamesi con due teste e un solo cuore”. È una metafora per indicare la complementarità. Sono, infatti, le uniche due persone nella famiglia a credere che il padre sia ancora vivo, mentre gli altri lo danno per morto, e nella loro ricerca hanno bisogno l’uno dell’altro. Forse più  Fabio di Aič, nonostante lei sia più piccola. Fabio ha paura di dormire da solo nel buio, vuole che nel letto accanto ci sia Aič, che è ben più coraggiosa di lui. Sarà sempre la sorella la prima ad avventurarsi nei cunicoli, nei passaggi più infidi che conducono verso il padre: è lei la vera forza propulsiva della ricerca. Una forza irrazionale, passionale, non mediata da pensieri e calcoli; è più altruista,  mossa da “amore puro” verso il padre, anche se il fratello critica il suo attaccamento che definisce morboso. Fabio, invece, è descritto come più egoista, persegue la ricerca per motivazioni proprie, fa “esperimenti dell’anima”, e la sorella intuisce che la sua fedeltà al padre non è assoluta come la sua. Nel testo affiora in certe scene oniriche anche un’attrazione di Fabio verso la sorella: “fra cento sorelle quest’una / che mi mangia il cuore e io il suo”, cita lo scrittore austriaco Robert Musil, che aveva sviluppato un concetto utopico di “Geschwisterliebe”, fusione fra fratello e sorella. È certo che Fabio e Aič si potrebbero interpretare come le due parti di un unico personaggio, il cui il fratello rappresenta il maschile (animus) e la sorella il femminile (anima), ma non credo che con queste categorie colgano appieno il rapporto dei due, caratterizzato da dolcezza, affetto, ma anche da una latente voglia di sopraffazione da parte del fratello.  

- Il Frocio di Frosinone, il Libico, il Libanese: come ti sono venuti in mente questi personaggi?

“Il Frocio” è un personaggio che conosce a menadito i collegamenti segreti e i bassifondi di Roma. Avevo bisogno di una figura che aiutasse Fabio e Aič, a trovare un passaggio per l’ospedale chiuso. L’ho battezzato, “Il Frocio di Frosinone” perché mi piaceva l’idea di una particolare marginalità, qualcuno che conoscesse la città venendo da fuori. “Il Frocio” si fa chiamare lui stesso così, il nome non è, dunque, spregiativo, tutto il contrario: è una figura profonda, che dopo una crisi ha fatto un radicale cambio di vita. Confesso che mi piace giocare con i nomi, così anche con quello del Libico, Abu Ridou, un biologo fuggito via mare dalla Libia in guerra, che all’Università di Roma trova solo  un impiego in nero, nella stanza delle fotocopie. Abu Ridou, letto di fila, in spagnolo significa “annoiato” (“aburrido”). Il Libico è annoiato dalla vita, una noia “esistenziale”, perché approdato in Italia con la speranza di una vita migliore, si vede relegato, malgrado sia una persona di grande cultura.  Sono destini comuni dei rifugiati, spesso vittima di pregiudizi. Come nel caso del Frocio, volevo dare dignità, a una figura della marginalità. Il Libico, con il suo pessimismo radicale si oppone a una certa tendenza edificante del romanzo: “Mortacci mia” celebra la ricerca di un senso umano, ma il Libico ci ricorda che questo senso forse non esiste e non è null’altro che una nostra costruzione consolatoria. Infine, il Libanese: da tecnico del suono può aiutare Fabio a interpretare meglio i rumori dietro alle pareti del Policlinico abbandonato. Questa figura, in realtà un ebreo ungherese di nome Gluckstern, veniva chiamato il Libanese perché  da giovane vagheggiava di un luogo, in Libano, dove pensava si trovasse “la folgore bianca dell’Ognidove.” È un mistico che crede nell’esistenza di una frequenza in cui tutti i suoni, del presente e del passato, convergono e dunque nulla, della vita, vada perduto. 

giovedì 22 maggio 2025

Blog Tour di Piero Salabè "Mortacci mia" edito La nave di Teseo. 1 Tappa

Un conturbante viaggio agli inferi, in una Roma surreale, alla ricerca di un padre scomparso.

Pintor è un medico che ha lavorato tutta la vita al Policlinico. È un uomo dedito alla ricerca, innamorato della scienza. Un giorno, nella maniera più discreta possibile – abbandonando i suoi occhiali sul comodino – toglie il disturbo scomparendo nel nulla e lasciando i figli senza un perché. Mentre il resto della famiglia lo dà per defunto, Fabio e Lara non credono alla morte del genitore e decidono di cercarlo. Alcuni diari del padre indirizzano i due figli verso l’ospedale, nel frattempo chiuso e abbandonato. E se Pintor fosse proprio in quel Policlinico tanto amato, in qualche ala dimenticata, a portare avanti i suoi esperimenti? Fabio e Lara decidono così di avventurarsi tra laboratori sotterranei e padiglioni decaduti, in una città dei miraggi popolata di voci e visioni, dove i confini fra realtà, ricordi e immaginazione si fanno via via più labili.

Piero Salabè firma un romanzo toccante e profondamente umano, popolato da personaggi straordinari. Una storia poetica e di debordante inventiva che è un corpo a corpo serrato con la memoria, con il desiderio di mantenere in vita, a ogni costo e con ogni mezzo, chi non c’è più.


1) Prima tappa, risposta a due domande.


– Il romanzo “Mortacci mia”, è ambientato a Roma, "oscuro ombelico del mondo", città in cui il narratore è nato e da cui non riesce a liberarsi. Come mai? 

“Mortacci mia” è un romanzo sull’impossibilità di scampare alla propria origine, a prescindere da dove si è nati: che sia una grande città, un borgo di provincia o un paesello sperduto. Nel romanzo il rapporto con l’origine appare ambiguo: nel racconto il narratore Fabio, ad esempio, va in cerca del padre scomparso nell’ospedale abbandonato, ma non è chiaro se lo fa per riabbracciarlo e per liberarsi dalla sua ombra ingombrante. Nasciamo nel seno di una famiglia, restandone legati finché giunge il momento del distacco. Ed è quando ci si rende conto quanto difficile, forse impossibile sia sciogliere quel legame profondo.  Fabio va a vivere all’estero, lasciando dietro a sé Roma, una città decadente, che non sembra offrirgli un futuro. Eppure, continua a tornarci, mosso da un’attrazione fatale. C’è una frase che lo ossessiona: “A Roma si viene solo a morire”.  Ma di che morte si tratta, si chiede il lettore: una morte reale o forse una morte simbolica per potere rinascere, libero dal peso del passato irrisolto? È questo il tema del libro. Nel romanzo di formazione si narra il percorso di un eroe dall’infanzia e adolescenza all’età adulta, in “Mortacci mia”, invece, sembra prevalere la regressione, il non riuscire a diventare pienamente adulto, il restare bambino. A un certo punto il narratore dice:  “La storia che segue si svolge nel tempo e ha un inizio e una fine, ma l’adulto che la racconta a tratti rimpicciolisce fino a tornare ragazzo, persino bambino.“ Il romanzo descrive la lotta fra sentimenti contrastanti, da un lato la voglia di liberarsi dall’ombra del padre e della città, dall’altro, invece, l’indulgere nostalgico.  
 
 – La nostalgia, che tipo di sentimento è?

La nostalgia, come dice la radice greca della parola, è “il dolore del ritorno”: si soffre lo stare via da casa.” Credo che tutti conoscano questo sentimento, che riguarda non solo  “la casa”, ma il passato in generale. Spesso ci si abbandona alla nostalgia, voluttuosamente, preferendo di vivere in un’epoca trascorsa che si ricorda come felice, idealizzandola, anziché misurarsi con il presente. E può capitare che la nostalgia divenga morbosa, perché impedisce di vivere il presente. Il narratore di “Mortacci mia”, è “malato di nostalgia”, come rivela nella prima pagina del romanzo: lui, che vive all’estero, continua a tornare nella sua città. “La città era sempre là, immutata. Ancora una volta, l’aveva vinto, l’aveva fatto ritornare inerme, bambino.” Il ritorno corrisponde a una sorta di regressione, qualcosa per cui il narratore prova vergogna. Spera allora che  raccontando la sua storia, possa liberarsi finalmente dal sortilegio della nostalgia. Ecco che inizia a rievocare il suo passato nella città, nella casa, nella famiglia. Il romanzo “Mortacci mia” descrive, dunque, una lotta contro la nostalgia: il bilancio è incerto, non è chiaro come finisca questa lotta che forse non produce che un ulteriore avvinghiamento nella nostalgia. Una soluzione  ci sarebbe, forse, come emerge in una scena del romanzo, quando il narratore Fabio partecipa con la sorella Aič a un gioco, una strana mosca cieca: “Vince chi riesce a uscire per primo dalla casa, a togliersi per sempre la benda, a non volere mai più tornare”. 

martedì 29 aprile 2025

LAUDA e FERRARI Campioni del mondo di Luca Dal Monte edito Giunti. Terza Tappa del Blog Tour

 

LAUDA e FERRARI Campioni del mondo di Luca Dal Monte edito Giunti.



Terza tappa:

C’è un risvolto personale nella stagione 1975 che racconto nel libro. Quella fu infatti la prima stagione di Formula 1 che seguii in tutta la mia vita - gran premi alla TV, lettura di riviste specializzate, prima gara vista dal vivo (GP d’Italia a Monza con vittoria di gara e mondiale da parte della Ferrari, una giornata difficile da dimenticare anche a distanza di 50 anni). E’ con questa stagione che nasce il mio interesse per la Formula 1, il mio affetto per la Ferrari, la mia ammirazione per Enzo Ferrari, Luca di Montezemolo e Niki Lauda. Questo è in definitiva anche un libro che ho scritto per me e per quella generazione di appassionati che hanno iniziato a seguire la Formula 1 in quella stagione, con quella squadra Ferrari, con quei piloti e con quella bellissima monoposto - perché oltre a essere superiore alle altre da un punto di vista tecnico, la 312 T è una delle più belle monoposto di Formula 1 di tutti i tempi: rossa con la grande presa d’aria sopra alla testa del pilota bianca con le tre strisce della bandiera italiana. All’epoca la copertura che la televisione dedicava alla Formula 1 era molto limitata rispetto a oggi. Ma anche per questa ragione, la fantasia galoppava. Esattamente 25 anni dopo pubblicavo il mio primo libro, che equivale poi a 25 anni fa. Insomma, ci sono tutta una serie di ragioni che rendono questo libro speciale per il suo autore. 


LAUDA & FERRARI Campioni del mondo di Luca Dal Monte edito Giunti 2 Tappa del Blog Tour

LAUDA & FERRARI Campioni del mondo di Luca Dal Monte edito Giunti.









Seconda tappa

La stagione 1975 è una delle più avvincenti nei 75 anni da quando esiste la Formula 1 (1950). A posteriori oggi la si pensa dominata da Niki Lauda e dalla sua Ferrari 312 T. In realtà, nonostante le 5 vittorie di Lauda e quella del compagno di squadra Clay Regazzoni nel Gran Premio d’Italia a Monza, fu una stagione con molti protagonisti, diversi vincitori di gran premio e vari pretendenti al titolo. Il dominio di Lauda si delinea tra la fine della primavera e la prima parte di estate, quando Niki vince quattro gare su cinque e fugge in classifica. Ma nei gran premi disputati tra gennaio e marzo nell’estate australe (Argentina, Brasile e Sudafrica), Niki e la Ferrari sono in difficoltà e i candidati al titolo sono altri: il campione in carica, il brasiliano Emerson Fittipaldi (all’epoca il più giovane campione del mondo nella storia della Formula 1); e l’argentino Carlos Reutemann. Nonostante le quattro vittorie nella prima parte dell’estate, Lauda rimane comunque a portata di mano dei suoi avversari sino a due gare dalla fine della stagione, quando si laurea campione del mondo a Monza in un’apoteosi di tifo ferrarista. Ma al di là del titolo di Lauda, la stagione 1975 vive altri momenti di grande pathos, come la prima vittoria dell’inglese James Hunt al volante di una macchina di un piccolo team di proprietà di un giovane Lord inglese (Hesketh); la prima vittoria di un pilota italiano da nove anni a quella parte (Vittorio Brambilla nel Gran Premio d’Austria); i primi punti mondiali conquistati da una donna in Formula 1 (Lella Lombardi, GP di Spagna). La stagione 1975 peraltro non è priva di drammi, come era comune all’epoca: il pilota americano Mark Donohue muore nel corso delle prove del GP d’Austria; due spettatori perdono la vita nel corso del GP di Spagna, un GP di Spagna in cui la Guardia Civil, agli ordini del dittatore Francisco Franco, minaccia di confiscare le monoposto e di arrestare piloti e dirigenti, tra cui Luca di Montezemolo, all’epoca direttore sportivo della Ferrari.

giovedì 17 aprile 2025

LAUDA & FERRARI Campioni del mondo di Luca Dal Monte edito Giunti Prima Tappa del Blog Tour



LAUDA & FERRARI Campioni del mondo di Luca Dal Monte edito Giunti 




Prima tappa:


La stagione 1975 segna la nascita dell’era Lauda in Formula 1. Quell’anno il pilota austriaco della Ferrari vince infatti il primo di tre titoli mondiali (1975, 1977, 1984). Per la Ferrari inizia invece quest’anno un ciclo vincente che sopravviverà anche alla permanenza di Lauda a Maranello (Niki se ne andrà a fine 1977 dopo aver vinto un secondo titolo mondiale. Il ciclo vincente della Ferrari vede la Scuderia di Maranello vincere 7 titoli mondiali in cinque anni: Piloti nel 1975 e 1977 con Lauda; 1979 con Jody Scheckter; Costruttori nel 1975, 1976, 1977 e 1979.) La stagione 1975 segna il ritorno al vertice della Ferrari dopo varie stagioni di appannamento. Enzo Ferrari compie una sorta di rivoluzione, assumendo due nuovi piloti (Niki Lauda e lo svizzero ticinese Clay Regazzoni), rimettendo sul ponte di comando a livello tecnico una sua vecchia conoscenza, vale a dire l’ing. Mauro Forghieri; e dando l’incarico di direttore sportivo (l’uomo che ha la responsabilità à della squadra in pista) a un giovane con pochissima esperienza specifica alle spalle, ma una laurea in giurisprudenza. Il suo nome è Luca di Montezemolo, che sarà poi presidente della Ferrari per 23 anni (dal 1991 al 2014). Per quanto Lauda arrivi a definire un’era della Formula 1 e sia ancora oggi considerato uno dei più grandi di tutti i tempi, nell’anno in cui vince il suo primo titolo - il 1975 raccontato nel libro - quasi nessuno lo ritiene il migliore pilota in circolazione ma, più semplicemente, quello al volante della macchina migliore, quella 312 T che in molti ancora oggi ritengono il capolavoro del suo progettista, Mauro Forghieri. Quell’anno lo stesso Lauda pare non avere alcun problema ad ammettere di non essere probabilmente il migliore pilota in attività. Pragmatico come sempre sarà nella sua vita e nella sua carriera, Niki lascia che l’ambiente alimenti dubbi sulle sue vere qualità e, nel frattempo, da grande professionista quale sarà sempre, vince 5 gran premi, conquista il titolo mondiale e riporta a Maranello un alloro che la Scuderia Ferrari non riusciva a fare suo da 11 anni, il digiuno più lungo nella vita di Enzo Ferrari, il mitico fondatore di quella che ancora oggi è considerata la squadra corse più famosa nella storia dell’automobilismo sportivo.

lunedì 14 aprile 2025

Il partigiano della breakdance. Dalla Russia ad Amici, dalle strade ai grandi palchi di Roman Froz edito Cairo Editore Blog Tour 2 Tappa

  Il partigiano della breakdance. Dalla Russia ad Amici, dalle strade ai grandi palchi di Roman Froz edito Cairo Editore. 



Seconda tappa: 14 aprile.

Mio nonno era una persona molto umile, nonostante in vita sia stato un eroe. Ma non un eroe solo per me, perchè era mia nonno, un eroe perchè a sedici anni si arruolo' volontario nell'Armata Rossa per combattere i nazisti. Avevo circa 24 anni quando mi resi conto di chi fosse davvero, eppure l'ho sempre avuto accanto da quando ero piccolo. Ma solo a quell'età con una certa maturità mi ero reso conto di chi fosse davvero. Da allora è stato lui a guidarmi come un faro nel buio, come un esempio da seguire, e come qualcuno cui diventare. Nonno Semion ha partecipato alla liberazione dell'Ungheria, Cecoslovacchia e infine alla presa di Vienna nel 1945, e anche io nel mio piccolo ho voluto fare qualcosa di grandioso per dirgli "guarda nonno, anche io ho una medaglia, anche io sono un campione". Bhe posso dire che l'ho fatto, e l'ho fatto prima che mi lasciasse. "Il partigiano della Breakdance" non è solo un racconto di danza, ma un viaggio profondo nei valori della vita e della famiglia.